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Camillo Bellieni
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Brigata Sassari
 

Camillo Bellieni  nacque a Sassari, dove la madre si era trasferita temporaneamente per partorire, nella casa dei genitori di lei, come si usava fare  in quegli anni, trascorse la sua prima infanzia, sino alle soglie dell`adolescenza, a Thiesi, centro agropastorale della provincia di Sassari, dove il padre era titolare della locale farmacia.

Dopo aver compiuto gli studi presso il Liceo Azuni di Sassari, negli stessi anni in cui lo frequentava il figlio dell`economo del convitto Canopoleno  Palmiro Togliatti, futuro segretario del Partito Comunista Italiano, si laureò, in Giurisprudenza nell`ateneo sassarese, e, successivamente, in filosofia a Roma. Fu interventista e partecipò con il grado di tenente al primo conflitto mondiale nelle file della Brigata Sassari, unitamente ad Emilio Lussu, un altro dei giovani destinato a diventare personaggio di primo piano negli anni della nascita del P.S.d`Az.

Bellieni fu il principale animatore di quell`ala politicizzata dei combattenti che spinse per la fuoriuscita dalle secche in cui ormai si trovava il movimento, prima della sua annessione al movimento fascista, e fu il primo direttore regionale dopo il congresso di Oristano che sancì, dopo una lunga gestazione, la nascita ufficiale del P.S.d`Az.

Storico e filosofo, uomo di grande cultura, e di grande spessore morale, Bellieni fu il teorico e il grande organizzatore del primo sardismo. Aveva fatto delle idee di libertà, di giustizia e di equità sociale, la sua religione civile, ed ha creduto fino alla fine di suoi giorni, nell`idea del riscatto morale e sociale della Sardegna, come un presupposto fondamentale per un riscatto morale e politico dell`Italia. Bellieni vedeva la Sardegna, per la sua posizione geografica e per la sua storia culturale, come il fulcro di un`alternativa politica ed economica mediterranea che si ponesse al centro dei blocchi politici e militari che si profilavano all`orizzonte dopo il primo conflitto mondiale.

Cristiano per cultura e laico nell`azione, liberale e antifascista, repubblicano e socialista, Bellieni compendiò i grandi filoni della cultura morale e politica europea nella dottrina dell`autonomismo federalista che niente ha da spartire con l`autonomismo speciale che ha dato vita, nel secondo dopoguerra, all`ancora vigente Statuto regionale della Sardegna.

L`autonomismo, nel linguaggio del Bellieni, è, alla lettera, capacità autodeterminativa degli individui e dei popoli che deve trovare la sua espressione politica nella potestà legislativa dell` “Ente Regione”. Al regionalismo italiano post-unitario mancava proprio la potestà legislativa e sovranitaria delle regioni.

Se la Sardegna è una nazione, questo è il ragionamento di Bellieni, essa è una nazione abortiva e sarà destinata a restare tale finchè non acquisterà la sua sovranità politica e la sua potestà legislativa al pari dello Stato.

Va da sé che, l`impianto centralista dello Stato italiano e neanche le blande proposte di decentramento amministrativo provenienti dalla destra e dalla sinistra storica, non erano sufficienti ad accogliere la visione regionalista del Bellieni e che, pertanto, si rendeva necessario riscrivere il patto tra le regioni e lo Stato. Un patto dove alcuni poteri sono demandati allo Stato centrale ed alcuni alle regioni.

In quest`ottica federale, dunque, si comprende e si spiega l`autonomismo sardista del Bellieni. Nessun separatismo, nessun massimalismo indipendentista appare più lucido e più radicale dell`autonomismo bellieniano. Nella sua concezione autonomista e federalista il termine “regione” sostituisce il termine “Stato”. La regione diventa Stato, se ne pone come sua parte integrante e costitutiva e, insieme ad altre regioni-Stato, configura il nuovo assetto di una moderna repubblica federale. Il nuovo Stato repubblicano dovrebbe essere costituito, nella visione del Bellieni, dalle diverse regioni che liberamente aderiscono alla costituzione del nuovo Stato federale, con pari dignità e con pari autonomia.

Solo in questa prospettiva la storia della Nazione Sarda avrebbe potuto trovare la sua dimensione statuale e quindi uscire da quella condizione di nazione abortiva in cui era venuta a trovarsi dopo la definitiva e tragica sconfitta subita dinanzi alle truppe aragonesi nelle colline del Marghine. Allo stesso tempo non sfuggiva al Bellieni l`inadeguatezza delle classi dirigenti sarde e italiane per la realizzazione di un progetto politico ambizioso quale era quello di una vera e propria rifondazione della Statualità e della politica, da cui l`esigenza della nascita di un nuovo partito e di una nuova classe dirigente con nuove consapevolezze ed in grado di assumere nuove responsabilità per la Sardegna, per l`Italia e per l`Europa.

Negli anni del fascismo, quando i partiti politici dovettero tacere, per via della dittatura mussoliniana, Bellieni insegnò filosofia e pedagogia a Trieste. Fu tra i protagonisti della ripresa democratica dopo la caduta del Fascismo, e fu fortemente critico nei confronti del nascente autonomismo che, certamente, non andava, come di fatto non andò, nella direzione da lui auspicata.

Morì a Napoli e la sua salma venne riportata a Sassari, dove è sepolta nel cimitero cittadino.

(Tracce biografiche tratte dal sito: http://www.psdaz.org)
 
 
Le pagine che Bellieni scrisse sulla Brigata Sassari appartengono al suo libro "Emilio Lussu" , edito nel 1924, ecco come Bellieni racconta del suo arrivo alla Brigata:
 
“ …Andavo egualmente sul Carso per obbedire alla strana disposizione del Co­mando Supremo che imponeva ai militari di stirpe sarda di raggiungere al più pre­sto la Brigata Sassari, che doveva essere al più presto ricostituita. Agli ufficiali della medesima stirpe era lasciata beni­gnamente facoltà di seguirli o di restare al proprio Reggimento. Ed appunto come protesta contro questo provvedimento d`eccezione nei riguardi dei miei poveri compaesani, che venivano strappati dal loro reggimento, diventato una seconda famiglia, a cui erano legati dai dolci ri­cordi della vita di guarnigione, io crede­vo mio dovere seguirne la sorte. Vago sentimento di solidarietà, perché allora, impeciato di democrazia e di futurismo, combattente e antimilitarista per una Eu­ropa senza barriere doganali e con una sola civiltà, io non credevo alla Sardegna. Ma arrivato a Fogliano, ai piedi del greppo rosso, un piccolo brivido di com­mozione nelle vene: ecco le salmerie del­la brigata, ecco i primi soldati dal carat­teristico viso, con gli occhi neri vicini, il profilo sporgente, e la sagomatura del corpo che ricorda certe figure stilizzate delle pitture murali egiziane. E tu cre­devi d`aver dimenticato il tuo paese! Non ti accorgevi di portarlo con te non solo nel volto, in tutto il fisico, ma anche nella tua forma mentis, che tutti i dilet­tantismi e tutte le esperienze di vita riusciranno appena a debolmente modificare. Certo che la razza, questa antipatica for­mula nazionalista, la stirpe del Sig. Ca­dorna, viveva in quella piccola folla sempre più fitta man mano che ci s`inoltrava nei camminamenti, appariva in quei soldati dall`aspetto ingenuo e primitivo, come il marchio di un invisibile demiur­gico sigillatore. Quasi tutti andavano in su, come me, uomini di cento reggimenti, per fare onore alla Sardegna, in obbe­dienza all`ordine di servizio Cadorna.”
 

Di seguito le parole di Bellieni narrano il suo primo incontro con Emilio Lussu:

“ … In una baracca un po` ampia due uomini erano seduti su lettucci di assi e di sacchi. Il Maggiore un po` anziano, dai grandi occhi neri e dai baffi marziali, ed il suo aiutante, un giovanotto con gli occhiali, il viso piccolo tutto barba, il resto del capo avvolto in un passamon­tagna.
Presentazioni: — Sottotenente Bellieni - Maggiore Cuoco - Tenente Emi­lio Lussu. —
Domande del Sig. Maggiore:
- Lei è arrivato da avant`ieri sera?
- Signor sì.
- Ha fatto domanda di venire alla Bri­gata? Bravo.
- Dove si trovava col 43°
- A Plava.
- Si stava tranquilli?
- Non c`è male.
- E qui siamo sempre in al­larme.
- Aiutante - aggiunse poi col piglio risoluto dell`ufficiale di carriera che si accordava tanto bene con i suoi baffi e la sua chiara parlata toscana - lo ac­compagni al Budello. Bisogna che quel servizio sia presto eseguito; - e rivolgen­dosi a me
- Stasera col suo plotone lei darà il cambio in linea. Prenda quindi immediatamente visione del fronte. Vada pure.
L`ora del riposo si allontanava sempre più. Uscimmo dalla baracca con il tenente Lussu.
- E` un brav`uomo il Maggiore Cuoco - disse quando fummo un po` lontani - non impressionarti per il suo cipiglio.
- E` l`abito del mestiere. Starai bene qui fra noi.
Io lo guardavo: alto, snello, la schiena diritta, un visetto di bimbo, il naso corto e un po` all`insù, la barbetta a ce­spuglio che accarezzava di continuo con un gesto nervoso, gli occhi piccoli, truci, scintillanti dietro gli occhiali. Truci, e ad un tratto pieni di dolcezza, quando rideva, con una larga bocca cordiale che mostrava i denti bianchi allineati.
 

Fu proprio Emilio Lussu ad accompagnare  Bellieni alla Trincea delle Frasche, ecco il racconto:

“ … Ed eccoci finalmente arrivati alle Frasche.
Ci fermammo un po` per respirare. Con coperte, teli da tenda e cartoni in­catramati, i soldati appostati dietro un muretto non più alto di 70 cm. avevano allestito delle modeste tettoie contro la pioggia. Uomini e cose però, sembrava avessero ricevuto un`unica mano di colore, una passata rosso-mattone. I soldati con i fucili alla feritoia, tiravano di con­tinuo, quasi per bizza, sui nemici com­parenti e scomparenti, che lavoravano anche di giorno a rafforzare le loro linee improvvisate.
Il solito quadro di genere, di trin­cea conquistata. Ma volgendosi indietro, alle spalle della linea, era uno strano spettacolo. L`assalto passava ancora di là come venti giorni prima. A 30 metri più indietro i cavalli di Frisia austriaci, contorti, frantumati dalle artiglierie in più punti, sorreggevano, là dove erano intatti, lugubri figure di uomini, nell`atto di varcarli, rimaste in piedi. Sui volti era ancora scolpita l`ira del soldato uc­ciso nell`istante in cui disperatamente cercava di divellere il filo spinato dal cavalletto, per aprirsi un varco. Più vi­cino alla trincea, gruppi di uomini cadu­ti gli uni sugli altri, la baionetta in canna ancora puntata verso l`obbiettivo della corsa. Altri sfracellati dalle bombe a mano senza più testa, o col torace infranto. Altri raggomitolati dietro un mucchietto di sassi, che avevano raggruppato con la mano per far da riparo alla testa. A qual­che distanza da noi un carnaio informe e ben rilevato sul terreno, in cui si me­scolavano le tinte verdastre dei brandelli di vestiti e le giallo-ceree membra ancora riconoscibili. A pochi passi della trincea, in primo piano, direbbero i pittori, un grande cadavere austriaco vestito d`az­zurro intenso, senza segni esteriori di fe­rita, le mani e il viso d`un colore roseo violaceo quasi trasparente come di carne congelata, si stendeva su di un fianco con lo zaino sulle spalle, i piedi calzati da grandi scarponi chiodati e muniti di ricurvi ferri di montagna. Qua e là sulla terra rossa mettevano cupe chiazze di colore le coperte grigio-nere distese a ricoprire quei poveri ricordi della glo­riosa ondata d`assalto. …”

Fu questo il mio primo incontro con Emilio Lussu, e si svolse in così strane circostanze che il ricordo mi restò sempre impresso nell`animo con una precisione fotografica. Che si trattasse di un soldato eccezionale mi ero subito accorto, dall`atteggiamento ammirato e rispettoso dei vecchi della Sassari, levatisi prontamente al suo passaggio. Ben presto ne ebbi conferma dai loro discorsi fatti a mezza voce in dialetto senza alcun imbarazzo per la mia presenza, giacché non ave­vano fatto ancora la scoperta ch`ero sardo. Allora dopo le Frasche, la grande maggioranza degli ufficiali era conti­nentale.

Già dal novembre 1915 Emilio Lussu era uno degli ufficiali più anziani della brigata. Uno fra i fondatori del 151° a Cagliari. Era partito col reggimento in quella deliziosa giornata di primavera inoltrata nella quale il fervido patriot­tismo insulare aveva coperto di fiori i figli di Sardegna che andavano a Roma per sfilare dinanzi al re prima di rag­giungere il teatro della guerra. Maggio Giugno di canti, di sogni, di rosee spe­ranze. La guerra sembrava allora una ro­mantica avventura che si sarebbe presto conclusa con una facile marcia su Trento e Trieste, fra un giocondo rombare di campane, il fragore di musiche militari e gli osanna delle popolazioni liberate. Tutto sembrava giustificare queste pre­visioni. La Brigata Sassari era stata man­data sulle sponde del Garda, a fare tat­tiche in attesa dell`ordine di puntare su Riva. Deliziose giornate di Calcinato, quando al tinnire delle armi si accom­pagnava il riso argentino delle bimbe lombarde, ricordate con nostalgia dai su­perstiti per tutto il calvario della guerra. Innocui esercizi e finte battaglie, vario­pinta féérie con l`ampio sfondo della di­stesa perlacea del lago, dolce principio di flirt e d`idillio campestre, e pur pro­logo d`un tragedia sanguinosa.

Emilio Lussu era stato uno degli uf­ficiali più eleganti e fortunati in questa giostra cortese. Poteva ricever dei punti solo da Alfredo Graziani, che nella sua qualità di cavalleggero e d`ordinanza del Generale godeva fama di rubacuori irre­sistibile. ..."
 
 
Ancora Bellieni ha sulla “sardizzazione” della Brigata una sua del tutto personale visione:
 
" ... La brigata doveva essere ricostituita. Ed il Comando Supremo, violando nei suoi riguardi un caposaldo d`organica dell`esercito italiano, (il reclutamento na­zionale, fatta eccezione per i battaglioni alpini) volle conservare il carattere sardo alla brigata. Mentre sino a quell`istante la Sassari, pur essendo in grande preva­lenza composta di sardi, non aveva una esatta consapevolezza della sua funzione regionale, (alla stessa maniera di tutti gli altri reparti di fanteria, che uscendo dalla mobilitazione, ed essendo stati completati con i richiamati del Distretto dov`era la se­de di guarnigione, avevano avuto sino allo­ra una fisionomia occasionalmente regio­nale) da quell`istante, in seguito all`ordine del giorno Cadorna che richiamava da tutti i reggimenti i sardi per inviarli alla Sassari, essa divenne un reparto isolano, sentì di rappresentare un reparto d`eccezione.
 
Piovevano in quei giorni da tutto il fronte soldati colle mostrine dai cento colori, lanciabombe, tiratori scelti, porta tubi di gelatina, elementi affezionati ai loro reggimenti, ben trattati dai loro co­mandanti, moltissimi in attesa di andare in licenza, le prime sospirate licenze an­nunziate dal Comando Supremo.
Erano costoro gli elementi scelti di ciascun reggimento: messi a contatto con camerati del restante d`Italia, i sardi spinti dal sentimento d`orgoglio e d`emu­lazione che è vivissimo in essi, cercavano di essere i migliori, i più solerti, i più audaci; andavano alla ricerca della lode; godevano della ricompensa conquistata. Vivevano nella simpatica atmosfera mo­rale del loro reggimento, tradizione qual­che volta secolare, dovunque prodotto di una organizzazione precedente alla guerra. Strappati dal loro ambiente, questi sol­dati, irritati, spesso scontenti di abban­donare i compagni di altre regioni, (quelli che erano stati in tempo di pace i loro vicini di branda) furono inviati alla Bri­gata Sassari con una sola parola: Sar­degna.

Siete sardi, dovete andare alla Bri­gata che ha fatto onore al vostro paese, per combattere e morire dove hanno com­battuto e son morti i vostri fratelli sardi, per la gloria della Sardegna. Tremendo richiamo a tutti i miste­riosi vincoli di sangue, ad un processo di selezione di razza compiuto nell`isola­mento di secoli in una terra che più di ogni altra macchia con la sua impronta gli uomini che vi nascono, capace di as­sorbire e trasformare completamente in due generazioni le genti forestiere che vi prendono stanza.

La prima salita in trincea, per tenere il fronte, vide appunto questo strano spet­tacolo: soldati di tutti i reggimenti del fronte, privi di alcun affiatamento fra loro, che tenevano a conservare le anti­che mostrine, senza ruollini, senza spi­rito gerarchico, ma stretti assieme da un solo vincolo: fare onore alla Sardegna, con un solo mezzo di comunicazione: il dialetto, i molti dialetti sardi, parlati pro­miscuamente, quasi per sfogo nostalgico, reciprocamente intesi. Era una grossa tribù di sardi che teneva il fronte. E tutti si prodigavano in azioni individuali, in colpi di mano, perché bisognava far vedere che i nuovi, provenienti da altri reggimenti, non erano da meno degli altri, di quelli che erano morti, o, scarsi superstiti, rappre­sentavano una piccola minoranza della compagnia. ..."
 
Nella narrazione che segue Bellieni affronta il sostanziale "distacco" del sardo dalla guerra:
 
“… Ma, non appena si discese in terza linea scoppiò la crisi morale, che era fa­tale prevedere. Il malcontento per il con­tinuo su e giù, senza il lungo riposo promesso, quanto mai necessario in quelle singolari condizioni, la ressa per le li­cenze che non si potevano concedere a tutti contemporaneamente, e per le quali venivano fatalmente sacrificati i nuovi ar­rivati, sopratutto questa parola Sardegna, che sola teneva unito il reparto fece sì che si venisse spontaneamente determinando un dualismo fra gli elementi sardi e quelli forestieri, che sorgesse una irritazione vivissima, contro i nuovi ufficiali in pre­valenza non sardi, giovani valorosissimi, entusiasti, ma incapaci di comprendere lo stato d`animo che si era formato len­tamente, alla stessa maniera di una camera di mina, spontaneamente determi­natasi nei sotterranei d`un forte, per la decomposizione d`una miscela instabile d`alti esplosivi. Al primo atto di energia, al primo gesto apparso brutale tutti e due i reggimenti insorsero, assalirono e malmenarono gli ufficiali non sardi, per qualche ora seminarono lo scompiglio nelle tranquille retrovie di Cavenzano e Villa Vicentina. In questi momenti di crisi, che potevano anche determinare lo scioglimento della Brigata, distruggendo le premesse d`una storia ancora in mar­cia, rifulse l`abilità, l`intuito di Emilio Lussu, e di altri pochi dei due reggi­menti che si trovavano all`altezza della situazione.
Il loro sollecito intervento valse a calmare le ire dei soldati ed a compiere il miracolo. Si trattava di accettare lo stato di fatto, il sardismo creato dal Co­mando Supremo, ed impiegarlo ai fini della guerra nazionale. D`altro canto occorreva compiere la fusione tra i reparti, affiatare i soldati con gli ufficiali. “Mancari malu, a su nessi chi siet sardu. Issu nos podet cumprender”. Anche cattivo, purché sia sardo. Esso solo ci può comprendere. Questo era il voto dei soldati, di coloro che erano stati colpiti nelle loro consuetudini di amicizia e di came­ratismo, e che da questa violenza spiri­tuale erano risorti ad una più tenace fratellanza isolana.
“Semus sardos”- dicevano con or­goglio e amarezza, ed alla sera il mulat­tiere che saliva l`erta di Castelnuovo, cantava con voce sommessa: “Pro defender sa patria italiana distrutta s`este sa Sardegna intrea.”
Gli ufficiali non sardi restarono; ma da parte degli ufficiali isolani, guidati, nel 151°, dall`affettuoso intuito di Emilio Lussu, del Tommasi, del Graziani, di al­cuni altri, si venne a quotidiano contatto con questo popolo in divisa, che aveva ristabilito usi e costumi del paese, rial­lacciato antichi vincoli di ospitalità, ri­preso le bardane sui cavalli ed i muli dei reparti d`Artiglieria e Cavalleria sca­glionati nelle retrovie, ricominciate le gare poetiche, ricostituita insomma la Sar­degna sul Carso e nella piana Friulana. Ciò che senza guide illuminate avrebbe portato a gravissime ribellioni, a forma­zioni di nuovi focolari d`odio, fu invece elemento di forza per le prove future, e proiettando innanzi a sé una ideale luce, costituì il segreto clima morale del Fior, dello Zebio, della Bainsizza, del Col del Rosso, d`Echele, del Piave. “Viva la Sar­degna!” Gridavano tutti gli ufficiali nel­l`ora dell`assalto, anche i non sardi scelti fra i migliori dell`esercito, anche il pal­lido Lino Fior, friulano, ferito gravissi­mamente tre volte con la Brigata, e spen­tosi nel dopo guerra con un colpo di pi­stola dinanzi all`aperto Vangelo, lui, il pallido friulano tormentato dalla gioia del sacrificio, di una glaciale ispi­rata compostezza, il mistico silenzioso, gridava: «Viva la Sardegna» quando por­tava i soldati all`assalto. “
 
Ancora Camillo Bellieni, nel 1924,  ricorda il Lussu “condottiero”:
 
 "....Il Tenente Lussu! Nella quindicina di riposo, i soldati oramai ripuliti, con le divise nuove, le mostrine bianco-rosso fiammanti, lo ammiravano mentre pas­sava di galoppo, diritto in sella, sul ca­vallo un po` bizzarro che a volta faceva degli scarti. Non cade certamente. E sor­ridevano con aria beffarda quando pas­sava invece quel tale capitano che aveva bisogno d`afferrarsi all`arcione non ap­pena il cavallo cominciava a caracollare.
L`Aiutante Maggiore del 3° Batta­glione sapeva stare in sella, era un gui­datore disinvolto e sicuro. Per un popolo di cavalieri qual`è il Sardo, che esige il corretto portamento in sella, e concepisce un elegante cavaliere come un necessario complemento alla perfezione. Anche delle forme del cavallo, queste virtù di contegno accrescevano il prestigio di Emilio Lussu.

Emilio Lussu era non soltanto uffi­ciale valoroso, elemento di affiatamento fra i colleghi che ne apprezzavano l`in­telligenza e la signorilità, comandante capace di ispirare fiducia nei soldati, ma era anche un uomo di cuore. Fece la guerra convinto della necessità di essa, pronto al sacrificio, severo con sé e con gli altri, ma senza indulgere mai ad un sentimento di ferocia che più spesso di quel che non si creda, si faceva strada nei cuori.

Ricordo che di ritorno sullo Zebio, dopo la mia prima ferita, lo trovai stre­mato dall`angoscia, ridotto quasi ad un vecchio.
Mi abbracciò e gli spuntarono le lacrime. Poi mi disse piano, perché nes­suno sentisse:
— Sono stanco sai, di fare il ma­cellaio. Fino adesso avevo fatto l`uffi­ciale. Ora invece bisogna portare gli uo­mini al massacro senza scopo. Ed alla fine il cuore si spezza.
Io lo guardai in silenzio, non riu­scendo a trovare una risposta.
Era il tempo della « viva pressione sulla fronte avversaria, alle pendici dello Zebio » quo­tidianamente annunziata dal comunicato Cadorna.
 
E la viva pressione consisteva nel lanciare i soldati sui reticolati ne­mici intatti, per un varco a 15 metri dagli austriaci, in cui bisognava passare per uno.
Una specie di tiro al piccione of­ferto ai Kaiserjaeger che si dilettavano di spaccare le teste ad una ad una, non appena comparivano allo scoperto. La pressione doveva continuare inesorabile, ed ogni giorno, sul lugubre varco limitato da sacchetti intrisi di sangue e di cervella, si ammucchiavano i cadaveri, sino a che non veniva raggiunto il nu­mero dei morti prescritto dal Comando di Divisione. Allora un colpo di telefono, e dall`alto veniva l`ordine di sospendere l`azione.
Venti volte Emilio Lussu saltò fuori dalla trincea, e miracolosamente illeso andò a sbattere contro i cavalli di frisia nemici ancora intatti. Una singolare for­tuna pareva accompagnarlo. Ed un giorno finalmente, di fronte alla stoltezza del­l`olocausto di centinaia di soldati, senza alcun risultato, senza una visione d`as­sieme, senza alcuna probabilità di suc­cesso, la sua coscienza si ribellò all`or­dine rinnovato di ricominciare alle dieci del mattino l`assalto quotidiano.
 
Chiamato dal Comandante la Divi­sione, fermo sull`attenti, ascoltò in silen­zio le disposizioni impartite, sempre le stesse da quasi venti giorni. I Comandanti del 3° Battaglione, uccisi, feriti, am­malati, si avvicendavano vertiginosamente, e solo l`Aiutante maggiore restava, mira­colosamente, a custodire la continuità del servizio.
— Ha inteso tenente? Mi dia assicu­razioni per una immediata esecuzione.
— Signor no.
Il Generale lo guardò cogli occhi sbarrati.
Il tenente Lussu fermo sull`at­tenti, fissava il superiore parimenti in viso, senza alcuna arroganza, collo sguar­do dell`uomo deciso.
— Come signor no! Non intende eseguire l`ordine?
— Signor no.
— Io lo faccio fucilare immediata­mente.
— Signor sì.
Il Comandante incrociò le braccia.
Stette un po` sopra pensiero. Poi ad un tratto:
— Vada pure.
Per quel giorno l`azione fu sospesa.
— E` il più bello ufficiale dell`esercito — borbottò poi il Generale quasi fra sé — se tutti gli ufficiali avessero quel fegato, la guerra sarebbe già vinta da un pezzo.
 
Il Generale, che era un valoroso, di­ceva in quell`ora di sincerità una cosa profonda. Poiché fra le varie forme di coraggio, la più alta è quella di saper resistere ai propri superiori, se così im­pone la propria coscienza, specialmente quando si è dato sempre prova d`un`obbedienza pronta, rispettosa e assoluta. Vi sono momenti solenni in cui l`eroe del­l`immediato adempimento deve saper di­ventare l`eroe del rifiuto.
Problema al­tissimo di morale, che non può trovare soluzione se non nell`intimo del proprio spirito e che la maggior parte dei sol­dati respinge da sé con la cieca obbedienza. Fra la morte su di un reticolato nemico e quella inflitta da un plotone di esecuzione, la scelta per la quasi totalità è immediata.
Una triste prova di questa debolezza da parte degli inferiori comandi che hanno il compito di far eseguire gli ordini par­titi dall` alto, ci è offerta dal Cimitero dello Zebio. Lassù fra la schiera nume­rosa di ufficiali morti, oltre 90 sono ca­duti nello spazio di un mese, vittime dello stillicidio quotidiano del luglio-agosto 1916.
Una grande Croce protegge i nostri martiri, che circondati dai loro sol­dati sono un esempio perenne dei tesori di devozione, di eroismo, di spirito di sacrificio, proprio all`esercito italiano. Questo ha una sola aspirazione ed una sola esigenza: essere comandato degna­mente da generali valorosi, intelligenti e forniti di umanità, cioè di esperienza di vita.
Capitano, Comandante di Compagnia, di Battaglione. I superficiali sognatori di un esercito democratico, all`acqua di rose, umanitario, immagineranno che Lussu, sostenitore sin d`allora dei diritti del pro­letariato, capo di plebe in rivolta nel dopo-guerra, sia stato l`ufficiale odiatore della forma, di quel contegno esteriore che è croce e delizia di tutti i vecchi troupiers di Caserma. Tutto al contrario: Emilio Lussu fu un rigido osservatore della forma anche in trincea. Pretendeva che i soldati si levassero in piedi al suo passaggio, che le giberne fossero costante­mente allacciate, che il fucile fosse pulito. Come ogni uomo che vive nella realtà sapeva che l`Esercito, arma e difesa della Nazione, non può partecipare a quel coz­zare di contrasti, di aspirazioni, d`ideali che è la lotta di partito, ricchezza spirituale di un popolo. L`esercito invece, anche nello stato più democratico, è fissa gerarchia di valori, è devozione completa ad un supre­mo ideale, è regola di ogni attività, è forma. Coloro che gli dedicano tutta la vita debbono essere dei sacerdoti, austeri, si­lenziosi. Gli altri debbono essere orgo­gliosi di potervi partecipare, di sacrificare, in un momento solenne della storia, la propria individualità, per un purissimo ideale spoglio d`ogni seduzione. L`eser­cito vive in un`atmosfera di sogno, in una astratta irrealtà, in cui non esiste la lotta economica, che é l`humus fecondo della pratica quotidiana. Allargare l`eser­cito sino a comprendere l`intera nazione nella sua totale multiforme attività, fare della nazione un esercito, è una retorica banalità da ingenui o da furbi imbro­glioni. Dove giuocano per fatale necessità di cose le leggi economiche, per la ri­produzione delle energie e l`affermazione delle attività individuali, dove si realiz­zano la produzione e lo scambio sotto la spinta dell`interesse, là é semplicemente assurdo imporre una norma regolatrice di tutte le diverse maniere di operare. E` l`eterna utopia che risorge da Platone a Campanella, sino ai teorici del socia­lismo premarxista, e che ora rifà capolino nelle recenti manifestazioni del bolscevi­smo e del fascismo.
L`esercito, strumento economico vive soltanto quando si trova al di fuori di ogni democrazia, in una rigida scala di gerarchie. E chi vi entra deve immedia­tamente assumere il proprio posto.
Emilio Lussu fu un vero comandante, fu l`uomo dal pugno di ferro, giusto, conoscitore del cuore umano, pronto a premiare chi generosamente si offriva volontario, pronto a punire con la rivol­tella il codardo che tentava sottrarsi al dovere. I soldati lo amavano, avevano in lui una cieca fiducia.
 
E nelle ore più solenni l`ufficiale ri­gido sapeva talmente confondersi con l`uomo di cuore, che dalla sintesi di que­ste opposte qualità sorgeva fuori una figura di dominatore, piena di fascino e di mistero.
Nel giugno 1917, dopo l`azione infelice che prese il nome dell`Ortigara, la battaglia era stata accanita e, per lun­ghe ore, d`esito incerto, anche sullo Zebio. Il nemico aveva alla fine infranto l`as­salto italiano. Restavano nel breve spa­zio fra trincea e trincea centinaia di fe­riti, dell`una e dell`altra parte, e da tem­po essi si lamentavano invocando soccorso. Fino a che vi era stata speranza di so­praffarsi vicendevolmente, la fucileria era continuata e nessuno aveva dato ascolto alle loro grida.
Ma quando la lotta si fu definitivamente stabilizzata, il comandante di battaglione sentì che i suoi doveri di umanità si facevano più imperiosi, e do­vevano sopraffare ogni altra considerazione di pratica utilità. Balzato sulla trin­cea Emilio Lussu chiese la sospensione del fuoco. Gli austriaci acconsentirono. Un quarto d`ora di tregua d`armi. Usci­rono i portaferiti; i morti e i malvivi fu­rono presi dalle due parti, il terreno fu sgombro.
Il quarto d`ora era passato. I due comandanti ritti sui parapetti, per sorvegliare le operazioni, con l`orologio alla mano, diedero l`ordine di rientrare in trincea i loro dipendenti; poi si salu­tarono in silenzio e scomparvero.
Un colpo di fucile in aria dalla linea italiana, ed un altro colpo dall`austriaca. come s`era convenuto. Era il segnale della ripresa. Le ostilità erano ricomin­ciate. Vi fu allora un pausa di silenzio. Improvvisamente una testa di austriaco riapparve sorridente.
— Fai fuoco! Ordinò il capitano Lussu alla vedetta più vicina.
Un colpo, un urlo, e poi una voce roca dalla trin­cea nemica:
— Vigliacchi!
Ma subito un`altra voce, quella del comandante austriaco, spiccando le sillabe in italiano:
— Ha fatto bene. Questi erano i patti.
 
Passavano ormai gli anni, e la sua vita si confondeva con quella della Bri­gata. Man mano che la Sassari si copriva di gloria la figura del giovane capitano risaltava sempre più. Non era stato mai ferito. Spezzatosi il polso per un acci­dente durante la ritirata, quando la brigata, che s`era coperta di gloria sulla Bainsizza, costituiva l`estrema protezione dell`esercito, ed ogni giorno affrontava il nemico per rallentarne la marcia, egli ritorna dopo pochi giorni in linea e par­tecipa alla battaglia di Col del Rosso, dove finalmente resta ferito ad un brac­cio. Guarito in breve tempo, è di nuovo col suo reparto. La battaglia del Piave lo ritrova ancora inesauribile animatore di tutto il reggimento, di tutta la brigata nella difesa meravigliosa, nella irrefrena­bile riscossa.
Oramai il suo nome è cir­confuso da un`aureola di leggenda. Nel­l`ottobre i bianco-rossi sono i primi ad entrare a Vittorio Veneto. Emilio Lussu cavalca alla testa del suo battaglione, come un grande eroe barbarico che guidi un esercito di crociata in difesa della fede. E al limitare del paese un vecchio prete si inginocchia dinanzi al suo cavallo, e additando le leggendarie mostrine dei soldati mormora con voce rotta dal pianto:
 
— Siano benedetti questi colori: gli ultimi ad abbandonarci nei giorni della scon­fitta, i primi a ricomparire nell`ora della vittoria. ..."
 
 
 
E ora alcune considerazioni del Bellieni politico e padre del Partito Sardo d`Azione:
 
 
“ … Se ha lo scrivente una modesta ra­gione d`orgoglio è quella d`avere additato per primo Emilio Lussu come il capo necessario dei combattenti nella nuova lotta civile.
Fu il movimento dei reduci in quel torbido e nevrastenico anno 1919 una jacquerie di legionari disoccupati, ane­lanti alla terra, fatalmente risorgente dopo tutte le grandi guerre, come alcuni gio­vani studiosi di storia e di politica oggi affermano? Noi, attori e partecipi, non osiamo dare un giudizio che pretenda di avere un valere definitivo; forse non pos­siamo. Certo che in quei giorni di ri­torno alla vita civile il mito di reden­zione alla patria originato dal martirio della trincea fu profondamente sentito da tutti i combattenti, da tutti coloro che durante le giornate più tormentose ave­vano sognato il dietrofront dopo la vittoria, conservando le formazioni di battaglia, per la punizione e purificazione di un Italia glaccida, barattiera, priva di ideali.

Non fu colpa dei combattenti se in tutto il Mezzogiorno e le Isole non esi­stevano già partiti politici, e se perciò questo mito elementare fu l`unico stru­mento con cui essi poterono smuovere le dure zolle d`un terreno mancante di ogni germoglio, di vita autonoma. Nella Italia settentrionale, come in Francia, in Inghilterra, gli ex combattenti si inqua­drarono nei preesistenti partiti politici; nel meridione e nelle isole crearono il bolscevismo patriottico, stato d`animo di ingenui impreparati, ma che significò in principio netta opposizione alle vecchie clientele, e si concretò nell`assalto al Municipio ed alla terra.

Ma il guaio maggiore fu che questo movimento, appunto perché stato d`ani­mo, cioè assenza d`ideologie direttrici, mancanza di esperienza della vita poli­tica, cadde in mano dei primi ufficiali con­gedati, provenienti dalle cricche demo­cratiche, paglietta maneggioni che si servirono dei combattenti, per acciuffare un medaglino o acchiappare un seggio di sindaco, e abbandonarono poi alla de­riva questo meraviglioso materiale umano. Tutto ciò non avvenne, per fortuna nostra, in Sardegna; e lo scrivente, com­prendendo il significato storico del movi­mento politico che s`era iniziato nell`isola, con tutte le sue forze, a Cagliari e a Sassari si battè perché alla testa dei com­battenti sardi fossero dei capi degni, degli uomini di sicura fede, dei soldati che non avrebbero sfruttato i loro com­militoni, e fosse dato il bando alle vec­chie e nuove maschere della democrazia e del liberalismo.

Bisogna che ritorni Emilio Lussu in Sardegna. E` questo l`uomo di ferro a noi necessario. Ripe­teva ciò nel dicembre 1918 ad amici ex combattenti cagliaritani, esitanti ad organizzare un movimento politico contro le vecchie cricche, preoccupati di perdere così la generale simpatia che allora i re­duci ispiravano. E diceva loro che anche a costo di suscitare feroci ostilità, era necessario innalzare una bandiera di par­tito e darla in mano ad uomini di fede sicura. Le vecchie clientele che pure erano state un`esigenza storica ed erano composte di elementi nella vita privata quasi sempre onesti, erano oramai inca­paci di guidare la Sardegna nella nuova sua fase di organizzazione economica e spirituale.

E mentre a Cagliari s`iniziava una campagna da parte di alcuni giovani non i combattenti, ma pieni di fede, per la im­portazione di grandi uomini di marca continentale per le prossime elezioni, lo scrivente metteva in guardia i reduci contro tali illusioni che avrebbero potuto recare, come infatti recarono, gravissimi danni alla nuova formazione politica. E additava agli elettori dell`Ogliastra e del Gerrei l`eroe non ancora ritornato, Emi­lio Lussu, come l`uomo, il soldato puro uscito miracolosamente dalla guerra per fare da condottiero nella battaglia civile. Mette conto riportare alcuni brani di quella esortazione un po` retorica, com­parsa sulla Voce dei combattenti di Sas­sari, come indice dello stato d`animo di quell`ora:

«Il primo giorno della guerra lo ha trovato alle frontiere, l`ultimo in prima linea dopo sessanta fatti d`arme sangui­nosi, più vecchio di spirito, dolorante di tragiche esperienze, ma con la stessa calma; con la stessa virile risolutezza del primo giorno.

La sua storia è la storia della Brigata. Non é mancato a un solo fatto d`armi, è balzato dalle trincee ogni volta che i soldati hanno dovuto valicare le trincee. Ferito dolorosamente non ha voluto go­dere di un sol giorno di licenza per compiere tutto intero il suo volere. La morte non l`ha voluto per un capriccio del caso. Quest`uomo che con ciglio asciutto ha visto cadere d`intorno i compagni più cari, non è un sanguinario. Ha sof­ferto in silenzio tutto lo strazio di mi­gliaia d`uomini della sua razza che sono caduti per il tricolore e lo stendardo crociato. La sua anima gentile di giovane colto si manifestava nei brevi intervalli di calma in cui i superstiti ancora traso­gnati si riconoscevano e celebravano la loro amicizia cementata nel folle gioco della guerra. Allora Emilio Lussu faceva conoscere la sua levatura spirituale, la sua visione profonda e qualche volta ironica della vita, la vastità e serietà della cultura.

Ma il suo criterio, l`equilibrio delle facoltà intellettuali, il coraggio nell`assumere responsabilità non gli venivano mai meno, neanche nelle ore tragiche della battaglia e della morte imminente. Que­st`uomo sapeva dire la sua parola ferma e risoluta ai superiori quando eseguire letteralmente un ordine poteva significare uno spaventoso inutile massacro, questo uomo sapeva far eseguire un terribile ordine all`amico suo più caro quando l`obbedire poteva significare il raggiungi­mento del compito prefisso. La morte non l`ha voluto. Ad essa egli si era votato, pur comprendendo interamente il valore della gioia della vita; ma questo giovane pieno di baldanza, e di fiducia nel fatale trionfo dei suoi ideali, é uscito da quat­tro anni di guerra un uomo maturo, dalla ferrea volontà, degno di guidare un intero popolo.

 
Chi lo ha visto nella pe­nultima battaglia del Piave, racconta le sue gesta come quelle di un eroe da Mito.
 "... In piedi, dopo sette notti di veglia, egli lanciò il grido per il contrattacco finale. Procedeva tra le raffiche delle mitragliatrici avversarie, battendo a terra un`alta mazza, la tracolla carica di bombe, intonando una canzone alla nostra ma­niera. Tutta la brigata entusiasta lo seguiva, gli artiglieri riprendendo i loro pezzi gridavano: Viva la Sardegna!
I biondi straccioni terrorizzati pren­devano in disordine la via della fuga. ..."
 
 
Barbaricini ed Ogliastrini, voi non avete bisogno di aedi, o di gonfi professori. Voi avete bisogno di un uomo di saldi rognoni che vi conosca, che sappia le vostre sofferenze, che com­prenda le vostre aspirazioni.
 
Gli illustri salvatori d`oltre mare re­stino alla loro gloria, alle loro trascen­denti missioni. Figgete gli occhi sui modesti di fede sicura che parteciparono alla vostra passione in questo quadrien­nio di sacrificio, e con animo fraterno nei momenti di riposo e di oblio, assi­stettero ai vostri balli rituali e ascolta­rono le vostre sacre canzoni. In quei tempi era facile accusare di semplicismo le nostre baldanzose affermazioni, di superficialità i nostri propositi di rinnovamento. Ed infatti, a lume di logica, le critiche non erano prive di solida base: — Sta bene, uomini puri, sol­dati valorosi, nuove energie, giovani, ecc. ecc., ma che cosa volete? il vostro movimento è di una genericità inconclu­dente. A che tendete, a che aspirate?

Osservazioni fondatissime. Solo che questi critici non avevano partecipato a quel misterioso processo di formazione del sardismo, che si è tentato di illustrare nelle pagine precedenti, e di cui testimone continuo fin dagli inizi fu Emilio Lussu, divenutone l`incarnazione, il simbolo, la bandiera.

Già Attilio Deffenu, nei mesi trascorsi alla Brigata prima del suo glo­rioso sacrificio, colla sensibilità politica raffinatissima che gli era propria, aveva colto il murmure sommesso, ma molti­plicato all`infinito in profondità e riso­nanza, sorgente dal battito delle vene di queste migliaia di sardi adunati in terra forestiera. E questo murmure diventava parola, e significava consapevolezza di una comunanza di storia, d`interessi, di idealità che prendeva il nome di Sardegna, ed esprimeva una volontà nell`avvenire. Sardegna, vecchia parola che sessant`anni di provincialismo avevano fatto dimenti­care, e che risorgeva con nuovi coloriti sentimentali, con nuove sfumature di significato. Sardegna voleva dire autono­mia, libertà non soltanto per l`isola nostra, ma per tutta l`intera nazione, oppressa ancor oggi dal più soffocante statalismo, che inesorabilmente vuol compiere la di­struzione di quelle vive forze locali co­stituenti già l`humus fecondo da cui fiorì la civiltà dei secoli d`oro.

A distanza di cinque anni c`è dato ancora vedere quello che era semplice stato d`animo trasformato in preciso pen­siero politico. Emilio Lussu è ancora sulla breccia; noi vecchi suoi compagni, i com­battenti del 1919, siamo ancora in gran parte al suo fianco, nonostante recenti amarezze. Il distacco di alcuni commilitoni che presero altre vie, ci ha portato molto più dolore che non sdegno. Ma l`ultima battaglia ci ha riempito di conforto. Rappresentiamo una grande viva forza, non solo sarda ma italiana; giacché il partito Sardo è un monito ed un esempio per tutto il Mezzogiorno, e per tanta altra parte d`Italia, economicamente e spiritualmente Mezzogiorno. E guar­diamo verso i giovani. Usciti stanchi dalla guerra, invecchiati di dieci anni, tormen­tati da ferite ed acciacchi, noi siamo ma­teriale destinato a bruciare, strumento della Provvidenza in un`età di transizione. Reggeremo ancora per poco all`ardua fatica intrapresa.

Vengano gli adolescenti di ieri ad occupare i nostri posti di combattimento, e ci confortino con il loro entusiasmo, le loro inesauribili energie. Nulla potrà maggior­mente riempirci di gioia, perché sarà la prova della perennità dell`idea al di fuori del ristretto ambito spirituale d`un gruppo di romantici superstiti.
 
Completo con questi brevi cenni il profilo dell`amico Lussu. Ad altri parrà che molto mi sia occupato del soldato e ben poco dell`uomo politico.

Rispondo che ormai sei anni sono trascorsi dalle fine della guerra e già gli avvenimenti di quel periodo appaiono composti a distanza in un quadro di se­renità, avvolti in un`atmosfera di nostalgia come tutte le cose morte. Non son più che il ricordo della nostra giovinezza. L`uomo politico é invece ancora troppo vicino a noi, troppo fraterna e stretta è stata la nostra collaborazione, perché si possa scrivere della storia, quando si combatte la lotta di parte. Mi sono quindi accontentato di raccontare pianamente un periodo della vita di Emilio Lussu che è, per lui motivo altissimo di gloria. Altri dirà in avvenire dell`uomo politico che seppe resistere a tutte le lu­singhe di onori e di cariche, per man­tenersi fedele all`ideale degli anni di guerra.”


è un'idea di Roberto Pilia
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