Da sempre, che io ricordi, ho visto per casa il libro di Emilio Lussu “Un anno sull’altipiano” e quello di Leonardo Motzo “Gli Intrepidi Sardi della Brigata Sassari”. In un primo tempo non li avevo ricollegati, non avevo colto che raccontassero gli stessi fatti, che parlassero degli stessi uomini.
Lessi “Un anno sull’altipiano” forse in prima o seconda liceo: grande fu la sensazione di impotenza che suscitarono in me quelle pagine.
Non riuscivo a capire sino in fondo le motivazioni di quel sacrificio, più o meno consapevole, e non avevo chiara, in me, la sua grandezza.
Tante sono state le domande che mi sono posta sui fanti della Brigata Sassari: quale fosse la loro quotidianità, come riuscissero a gestire lo stress emotivo dell’attesa degli assalti annunciati dalla distribuzione del "cordiale" alle truppe, per allentare i freni inibitori e preparare il fante all’imminente “balzo” dalle trincee, verso il micidiale fuoco nemico.
Mi sono chiesta se in quei giorni bui ci furono o meno dei normali giorni di “sole”, e come quei sardi abbiano vissuto il legame, purtroppo inscindibile, con la loro terra e il trauma degli affetti familiari lontani. Se, soprattutto, l’azione dei fanti sardi traesse origine da una sorta di eroismo, anche perché poi si deve parlare di un eroismo quasi di “massa”.
Ma più nel profondo mi chiedo quali potessero essere, in quel contesto, le motivazioni per giungere a quelle gesta, che furono da tutti attribuite a un eroismo peculiare della Brigata Sassari.
Il desiderio quasi intimo di dare una risposta a queste domande è stato, in parte, appagato dall’analisi delle immagini e delle fotografie della Grande Guerra.
Questa risposta, pur incompleta, fornita dalle immagini è quanto di più vicino a noi ci possa essere, per una prima lettura di ciò che accadde in quei giorni. Forse questo è dovuto anche all’importanza che la mia generazione attribuisce alle immagini e all’informazione visuale per la comprensione di una tematica.
Le immagini raccolte mostrano come la realtà di quei giorni sia stata di una durezza e crudeltà a cui noi oggi non siamo in alcun modo abituati, ma ci conforta invece constatare come lo spirito di conservazione dell’uomo non appartenga solo a una letteratura asciutta e di maniera. Accanto alle immagini di morte e disperazione ci sono così anche quelle dove l’uomo in guerra cerca di recuperare una dimensione naturale e quotidiana, altre immagini mostrano la ricerca di una normalità, da tempo persa nel vortice di una violenza senza spiegazioni profonde e giustificabili.
Altre immagini rendono ancora più dura la realtà mostrando un teatro fisico dei combattimenti degno di un girone infernale di dantesca memoria.
Sono proprio queste le immagini che ci avvicinano ai patimenti sopportati dai nostri soldati in quei quattro anni di guerra.
I luoghi dove si combatté sono di una bellezza mozzafiato: quelle montagne maestose danno un senso del creato inimmaginabile, la loro bellezza toglie il fiato e avvicina all’assoluto.
Per altro verso luoghi di una così rara bellezza diventarono, per le forze della natura e per mano dell’uomo, quanto di più infido, più letale, più terrificante i nostri soldati abbiano potuto provare.
Intuisco ora che la mia ricerca di una comprensione di quei giorni è fatta di molte domande e purtroppo poche risposte, ma queste domande sono una necessità interiore, quasi il solo modo per arrivare a conoscere quella realtà, dura da comprendere ma anche rivelatrice di quei valori ai quali sono stata educata.
Cerco quindi le motivazioni, le spinte, i più intimi convincimenti che portarono i nostri soldati a far fronte comune davanti al nemico, un nemico che non conoscevano, e che solo qualcuno li spinse a riconoscere come tale, che odiavano sì, ma che trattavano con grande rispetto se fatto prigioniero.
Ancora mi domando se non avessero altra possibilità che sacrificare la propria vita davanti al nemico, o se questo fecero con la considerazione che solo così si dovesse fare, in un modo o nell’altro, privati quindi di qualsiasi capacità di scelta.
Oppure se questo fu dovuto, in parte, anche alla posizione che assume il sardo nei confronti della vita e del destino, vedendo nella vita di sacrifici e di lotta per la sopravvivenza la sola via percorribile: il sardo chiamato alla vita per soffrire, come nel pensiero della Deledda: non vi è redenzione per l’uomo ma solo dolore, l’eterno dolore compagno dell’uomo, un dolore senza scampo, sola legge che governa l’umanità sarda.
Roberta Pilia
|